PUBBLICAZIONI:
LA NOZIONE DI “PROFITTO” AI FINI DELLA CONFISCA PER I DELITTI TRIBUTARI
P. Pasquinuzzi e M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.48
- 2018
LA NOZIONE DI "PROFITTO" AI FINI DELLA CONFISCA PER I DELITTI TRIBUTARI
Commento alla sentenza Cass. Pen., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 52166 (depositata il 20 novembre 2018)
di Paola Pasquinuzzi e Martina Urban
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta nuovamente la questione relativa alla determinazione del "profitto" oggetto di confisca in relazione ai reati tributari.
Occorre innanzitutto premettere che il Legislatore, con la riforma dei reati tributari attuata con il D.Lgs. n. 158/2015, ha introdotto una disposizione specifica in tema di confisca e, cioè, l’art. 12 bis, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000, che sostanzialmente recepisce e ricalca la disciplina previgente.
Tale norma attualmente stabilisce che, per i delitti previsti dal suddetto decreto, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. "patteggiamento"), debba sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato (confisca diretta).
Inoltre, la norma prevede che, ove quella diretta non sia possibile, il Giudice possa disporre anche la confisca "per equivalente", avente ad oggetto beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
In generale, la confisca è una misura ablativa del patrimonio del reo, che mira ad evitare che lo stesso possa acquisire al proprio patrimonio eventuali vantaggi economici derivanti da reato.
In riferimento ai delitti tributari, anche prima dell'introduzione del suddetto art. 12 bis del D.Lgs. n. 74/2000, vi sono stati numerosi interventi giurisprudenziali, non sempre del tutto conformi, in ordine alla nozione di "profitto" confiscabile.
In assenza di una norma specifica che definisca la nozione di "profitto" ai fini penali, la giurisprudenza ha inizialmente affermato che il criterio primario per identificarlo debba essere causalmente riconducibile, anche in via indiretta e mediata, all'attività criminosa posta in essere dall'agente e che in tale concetto vadano ricompresi non soltanto i beni che l'autore del reato apprende per effetto diretto e immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che lo stesso realizza come effetto mediato e indiretto dell'attività criminosa attraverso la trasformazione o l'investimento dei primi (Cass. S.U. Sez. un., 25 ottobre 2007, n. 10280).
Successivamente, i giudici di legittimità hanno affermato che il profitto sarebbe il "vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente" (Cass. Pen., Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654).
In tema di delitti tributari, la Suprema Corte affronta direttamente il problema ritenendo che "il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 D.Lgs. n. 74 del 2000, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario" (Cass. pen., sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18374).
In linea con questa pronuncia, la Cassazione ha ulteriormente ampliato la nozione di profitto per i reati tributari, che comprende non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa.
Inoltre, nei procedimenti aventi a oggetto i suddetti delitti, qualora il reato in questione sia stato commesso dal legale rappresentante di una Società, è possibile procedere alla confisca diretta del profitto di reato in capo all'ente, reale beneficiario del risparmio di imposta che costituisce il profitto del reato, potendo essere oggetto di confisca diretta anche il denaro liquido o altro bene fungibile nella disponibilità della società e, solo in un secondo momento, procedere alla confisca per equivalente a carico dell'imputato persona fisica, in caso risulti impossibile individuare il profitto diretto del reato in capo all'ente stesso (cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561 Gubert).
Occorre sottolineare che tali pronunce sono relative a fattispecie riguardanti lo specifico delitto tributario di "sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte" di cui all'art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, in relazione al quale la norma espressamente prevede che la condotta sia diretta a eludere il pagamento di imposte, interessi e sanzioni.
Per quanto riguarda gli altri delitti tributari e, cioè, quelli relativi all'uso o all'emissione di fatture false, di dichiarazione infedele o di omesso versamento, si è posto il problema di stabilire concretamente se il profitto confiscabile consista nella sola imposta evasa oppure se debba intendersi esteso anche ad interessi e sanzioni.
Sul tema la giurisprudenza appare divisa.
Un primo orientamento, richiamandosi alle citata giurisprudenza a Sezioni Unite in materia di "sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte" di cui all'art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, ritiene che per tutti i delitti tributari il profitto confiscabile sia identificabile nell'intero debito tributario, costituito da imposte, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento fiscale, quale vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato (Cass. Pen. Sez. III, 5 dicembre 2017, n. 267).
Parte della giurisprudenza, invece, ha affermato che, nell'ipotesi di "dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti" di cui all'art. 2 del D. Lgs n. 74/2000, il profitto del reato "non può avere ad oggetto le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito" (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 20 gennaio 2017, n. 28047).
Dato il quadro giurisprudenziale di cui sopra, la sentenza in commento effettua una precisazione importante in ordine alla suddetta questione.
Infatti, nel richiamare il secondo degli orientamenti suddetti, la Suprema Corte distingue l'ipotesi di reato di cui all' art. 11 D.lgs. 74/2000 rispetto agli altri delitti, ribadendo che, nel caso di "sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte", il profitto vada individuato "nel complesso dei beni sottratti alla garanzia patrimoniale in funzione del debito nei confronti dell'Erario", debito che la norma stessa individua come la somma di imposte, interessi e sanzioni.
Inoltre, nella sentenza in esame, la Suprema Corte precisa che, nel caso del delitto dichiarativo di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, il profitto è costituito solo dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, e per questo " non può avere ad oggetto le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione" (Cass. Pen. Sez. III, 6 luglio 2018, n. 52166).
Da tale statuizione sembrerebbe potersi ritenere che - a differenza dell'ipotesi di cui all'art. 11 - per tutti i delitti dichiarativi il profitto confiscabile possa essere limitato al solo importo del tributo evaso, ad esclusione delle sanzioni.
Rimane comunque aperta la questione sulla concreta determinazione del "profitto da reato" in tema di delitti tributari, questione particolarmente significativa, dato l'attuale rilievo dello strumento del sequestro preventivo ai fini della futura confisca nell'accertamento e nella repressione dei reati in questione.