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INDAGINI BANCARIE, RILEVANZA PENALE E DIRITTO ALLA PROVA
M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.53 - 2019



Indagini bancarie, rilevanza penale e diritto alla prova - Studio Legale Traversi - studio legale auto riciclaggio Firenze
INDAGINI BANCARIE, RILEVANZA PENALE E DIRITTO ALLA PROVA
Commento a Cass. Pen., Sez. III, 24 ottobre 2018, n. 13334 (depositata il 27 marzo 2019)

Di Martina Urban

La sentenza in commento affronta nuovamente la problematica della rilevanza penale delle presunzioni tributarie e, in particolare, della possibilità di acquisizione dei risultati degli accertamenti bancari come elementi di prova nel processo penale.
Ai fini fiscali, la disciplina dell’accertamento l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 prevede che l’Amministrazione Finanziaria possa procedere all’accertamento tributario attraverso l’acquisizione dei dati dei conti correnti riferibili ad un dato contribuente, al quale viene richiesto di fornire una giustificazione in ordine a ciascuno dei suddetti movimenti, per dimostrare che si tratta di flussi riferibili a operazioni estranee ai fatti imponibili.
Dal punto di vista tributario, la giurisprudenza è costantemente orientata a ritenere che l’Amministrazione Finanziaria possa limitarsi ad acquisire i suddetti dati, salva la prova contraria a carico del contribuente, che è tenuto a fornire una giustificazione analitica di ciascun movimento contestato (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. trib., 11 settembre 2018, n. 22089).
In mancanza di idonea giustificazione, l’Amministrazione Finanziaria può quindi legittimamente riprendere a tassazione gli accreditamenti e gli addebiti, sulla base della presunzione per cui tali movimenti sarebbero "ricavi non dichiarati".
Si tratta di una presunzione in forza della quale sia i prelevamenti che i versamenti operati sui conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, a meno che costui non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile, o che si tratta operazioni già tassate o non tassabili.
Le indagini bancarie rappresentano quindi uno strumento efficace per il Fisco, dato che consentono di procedere ad un accertamento, senza particolare sforzo probatorio, dato che l’onere della prova incombe prevalentemente sul contribuente, essenzialmente attraverso la produzione di documenti.
Ci si domanda a questo punto se sussistano profili di rilevanza penale, qualora venga accertata un’evasione di imposta sulla base delle indagini bancarie e se i risultati di tale accertamento, di natura squisitamente presuntiva, possano costituire prova per il processo penale.
In tali ipotesi, la fattispecie di reato astrattamente configurabile è principalmente quella di "dichiarazione infedele", di cui all’art. 4 del D.Lgs n. 74/2000, trattandosi di una condotta di sottrazione di elementi attivi all’imposizione, sempreché risultino superate le soglie di rilevanza penale previste dalla norma incriminatrice.
Oltre a ciò, tuttavia, si rileva che le indagini bancarie sono utilizzate anche in caso di mancata presentazione della dichiarazione fiscale, per ricostruire la reddittività di impresa e, quindi, l’ammontare dell’imposta evasa, soprattutto in assenza di una contabilità regolarmente tenuta, come nel caso di specie.
Qualora poi l’imposta evasa sia superiore alla soglia di euro 50.000,00, la mancata presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette e dell’IVA da parte di chi ne è obbligato assume rilevanza penale ai fini del delitto di "omessa dichiarazione", punibile ai sensi dell’art. 5 del D. Lgs. n. 74/2000.
Nella pronuncia in commento, il caso concreto all’esame della Corte di Cassazione riguardava infatti un’ipotesi di omessa dichiarazione, dato che ad un imprenditore, titolare di una ditta individuale, veniva contestato di non aveva presentato la dichiarazione annuale ai fini IVA, al fine di evadere la relativa imposta per un importo decisamente superiore alla soglia di punibilità.
Nel caso di specie, il contribuente era stato sottoposto a verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza che aveva rilevato una carenza documentale nella contabilità aziendale ed aveva quindi acquisito i dati relativi ai movimenti sui conti correnti, procedendo, in un secondo momento, ad effettuare controlli incrociati presso i clienti e fornitori, inviando loro alcuni questionari.
A seguito di comunicazione della relativa notizia di reato, l’imprenditore era quindi stato chiamato a rispondere del delitto di "omessa dichiarazione" ed era stato ritenuto responsabile del delitto a lui ascritto sulla base dei risultati dell’accertamento presuntivo in tema di indagini bancarie, utilizzati dai giudici di merito soprattutto in ordine alla determinazione concreta dell’imposta evasa, per verificare il superamento della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del D.Lgs n. 74/2000.
Il punto nodale della questione è stabilire quale sia la valenza probatoria in sede penale di un accertamento tributario di natura presuntiva, quale quello derivante da accertamenti bancari.
La questione della rilevanza penale delle presunzioni tributarie è già stata affrontata dalla giurisprudenza, che ha negato la valenza di prova piena nel processo penale, in quanto l’onere della prova in tale ambito incombe sulla pubblica accusa, che deve dimostrare la responsabilità penale "oltre ogni ragionevole dubbio", ex art. 533 cod. proc. pen.
In ogni caso, pur non trattandosi di prove vere e proprie, tuttavia i risultati a cui giunge l’Amministrazione Finanziaria mediante gli accertamenti presuntivi costituiscono comunque dati di fatto, che il Giudice penale può liberamente valutare al fine della propria decisione.
In particolare, in tema di accertamenti presuntivi, la Suprema Corte, con orientamento costante, ha escluso che gli stessi possano costituire delle fonti di prova della commissione di taluno dei reati tributari di cui al D.Lgs n. 74/2000, potendo tuttavia essere valutati liberamente del Giudice penale come elementi indiziari, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza della condotta criminosa (cfr. Cass. Pen., sez. III, 16 luglio 2015, n. 30890).
In mancanza di ulteriori riscontri, pertanto, le presunzioni del diritto tributario non possono essere da sole poste a fondamento della decisione del Giudice penale, il quale ha il compito di verificare in modo autonomo se nel caso concreto sussistono tutti gli elementi costitutivi della fattispecie penale, compresa la determinazione dell’effettiva imposta evasa, anche ai fini del superamento delle soglie di punibilità, laddove previste dal Legislatore.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte, pur confermando la pronuncia di condanna dei giudici di merito, ha tuttavia fornito una serie di precisazioni in ordine alla valenza probatoria di tali presunzioni tributarie ed ha fornito indicazioni concrete in ordine alle possibilità di difesa.
Innanzi tutto, la Corte ha ribadito che gli accertamenti tributari presuntivi non possano costituire delle fonti di prova della commissione di taluno dei reati tributari di cui al D.Lgs n. 74/2000 ma che, tuttavia, costituiscono elementi di fatto, come tali liberamente apprezzabili dal Giudice penale e che, quindi, possono fondare una pronuncia di condanna qualora siano presi in considerazione unitamente ad ulteriori elementi di riscontro.
Nel caso di specie, infatti, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del Giudice di merito che aveva tratto la prova della responsabilità penale non sul complesso dei risultati emergenti dalle indagini bancarie, ma solamente su quelli che avevano trovato ulteriori elementi di riscontro nelle successive indagini svolte presso clienti e fornitori.
Possiamo innanzi tutto arrivare ad una prima conclusione, in linea con l’orientamento prevalente sul punto e, cioè, che, nell’ambito del processo penale, l’entità dell’imposta evasa non possa essere determinata unicamente in riferimento ai movimenti bancari non giustificati dal contribuente-imputato, bensì solamente per quelli assistititi da idoneo riscontro.
In secondo luogo, la Suprema Corte comunque rileva che, nel caso di specie, l’imputato non ha fornito alcun elemento di fatto – neppure documentale – atto a smentire le conclusioni dell’Amministrazione Finanziaria.
Ciò non significa certo che nel processo penale l’imputato sia onerato di una prova contraria, così come accade nel procedimento amministrativo e tributario, ma che in tale ambito è sempre possibile introdurre qualunque elemento di fatto, atto a smentire l’ipotesi accusatoria, sia di tipo testimoniale che documentale.
Difatti, nel processo penale l’imputato ha una più ampia facoltà di prova rispetto al procedimento amministrativo-tributario (essenzialmente documentale), potendo dimostrare che i movimenti bancari oggetto di ripresa a tassazione sono in realtà riferibili a fatti non imponibili anche attraverso le dichiarazioni dei testimoni, che hanno valenza di piena prova e sono quindi idonee a smentire i risultati dell’accertamento presuntivo.
Da ultimo occorre tuttavia sottolineare che la giurisprudenza di legittimità, pur ritenendo che le presunzioni tributarie non possano costituire piena prova della responsabilità penale per uno dei delitti tributari, tuttavia ha affermato che tali risultanze possono essere sufficienti per disporre una misura cautelare, quale il sequestro prodromico alla futura confisca (cfr. Cass. Pen. Sez. III, 30 ottobre 2019, n. 7242).
Pertanto, sulla base di tali accertamenti di natura presuntiva, l’Autorità Giudiziaria potrà disporre il sequestro che, nella pratica, si risolve in una misura particolarmente afflittiva, perché si applica sui flussi finanziari dell’impresa (in caso di sequestro finalizzato alla confisca diretta) o, in mancanza, sul patrimonio del legale rappresentante e "congela" tali beni fino al termine del processo quando, con sentenza definitiva, il Giudice penale deciderà definitivamente in ordine alla loro eventuale confiscabilità
In conclusione, benché il Legislatore abbia concepito un sistema penale-tributario improntato al principio dell’autonomia tra processo penale e quello amministrativo, tuttavia sussiste obiettivamente una commistione tra i due ambiti, vista la specificità della materia tributaria, che mette definitivamente in crisi il sistema del doppio binario e impone comunque al contribuente-imputato di dover offrire in concreto una prova dell’infondatezza degli accertamenti presuntivi, anche se con i maggiori strumenti di prova offerti dal processo penale.







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