La responsabilità penale del professionista per i delitti tributari commessi dal proprio cliente: recenti evoluzioni giurisprudenziali sul tema
Recentemente la Suprema Corte ha affrontato in diverse pronunce il tema della responsabilità penale del professionista per un reato tributario realizzato in concorso con il proprio cliente.
I delitti tributari e, in particolare, quelli dichiarativi, sono reati propri e, cioè, possono essere commessi da coloro che sono soggetti passivi d'imposta e, in quanto tali, sono tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi o dell'IVA.
Quanto al ruolo del professionista, non vi è dubbio che, in astratto, possa ritenersi configurabile il concorso di tale soggetto nella realizzazione di un reato perpetrato dal cliente-contribuente.
Innanzi tutto, la responsabilità penale è configurabile a titolo di concorso morale, qualora l'agente abbia istigato, determinato o rafforzato il proposito criminoso del soggetto attivo del reato.
Caso tipico è quello del professionista che "suggerisce" al cliente - magari del tutto inesperto della materia fiscale - di portare in dichiarazione elementi attivi inferiori al vero o elementi passivi fittizi o, addirittura, di avvalersi di fatture per operazioni inesistenti a scopo di evasione.
Sul tema, occorre poi sottolineare che, a seguito della recente riforma del diritto penale tributario, attuata con il D.Lgs n. 158/2015, per i delitti non dichiarativi di cui al titolo II del D.Lgs n. 74/2000 (tra cui quello di "emissione di fatture per operazioni inesistenti" e "sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte"), il Legislatore ha introdotto una aggravante ad effetto speciale a carico del professionista che abbia concorso a realizzare uno di tali reati nell'ambito della propria attività di consulenza fiscale.
In tal senso, il nuovo art. 13 bis, comma 3, del D.Lgs n. 74/2000 prevede l'aumento di pena della metà non solo in riferimento alla qualifica del soggetto, ma altresì in ordine ad un ben definito modello comportamentale, che si estrinseca nella "elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione fiscale".
Sulla base della giurisprudenza più recente, il disvalore connesso a tale aggravante risiede "non nella predisposizione o diffusione di accorgimenti estemporanei volti a realizzare una singola evasione fiscale, ma nel ricorso a iniziative elusive sistematiche, perché già sperimentate in casi analoghi e perché comunque riproducibili in futuro a beneficio di altri potenziali evasori" (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 29 agosto 2019, n. 36212).
In definitiva, nell'ipotesi di concorso per uno dei delitti di cui sopra, nei confronti di un professionista che abbia adottato un modus agendi seriale (anche se ideato da altri), non solo potrà essere applicato un trattamento sanzionatorio ben più severo rispetto al proprio cliente, ma potrà essere altresì disposta la confisca del profitto di reato, in solido con gli altri concorrenti, anche se la condotta criminosa ha portato un vantaggio economico esclusivamente al contribuente.
Oltre a quanto sopra, nei confronti del professionista è altresì configurabile una responsabilità penale a titolo di concorso materiale, qualora tale soggetto con il suo comportamento abbia dato un contributo causale nella fase preparatoria o esecutiva della condotta criminosa.
Infatti, per accertare la sussistenza del concorso di persone nel reato, occorre in ogni caso verificare che la condotta del concorrente abbia avuto un'efficienza causale nella realizzazione del reato, senza la quale il reato non si sarebbe verificato o si sarebbe realizzato in modo diverso.
In una recente pronuncia, la Suprema Corte ha annullato un'ordinanza applicativa di un sequestro per equivalente disposto nei confronti di un commercialista, per carenza di elementi dimostrativi di un concreto contributo concorsuale dato da costui per la realizzazione dei reati tributari ipotizzati a carico del proprio cliente.
Nel caso di specie, al legale rappresentante di una Società di capitali era stata contestata l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti emesse da un'altra Società riconducibile tuttavia al medesimo imprenditore.
A seguito della verifica fiscale, il Pubblico Ministero aveva applicato il sequestro preventivo ai fini della futura confisca anche nei confronti del commercialista, quale concorrente nel reato, dal momento che costui rivestiva il ruolo di consulente fiscale in entrambe le Società.
La Suprema Corte, annullando tale provvedimento, ha affermato tuttavia che non è sufficiente rivestire il ruolo del consulente fiscale, ma occorre chiarire il contributo causale concreto dato dal professionista in relazione ai reati contestati al contribuente "individuando con sufficiente specificità le condotte alla stessa riferibili e la loro incidenza sulla realizzazione degli illeciti tributari" (Cass. Pen. Sez. III, 27 agosto 2019, n. 36461).
In ogni caso, è opportuno sottolineare che la semplice predisposizione e presentazione della dichiarazione dei redditi o la sola attività di consulenza fiscale relativamente ad un cliente che abbia realizzato uno dei delitti tributari non possono costituire automaticamente attività penalmente rilevanti.
Dal punto di vista soggettivo, infatti, occorre la coscienza e volontà di commettere il reato e, nel caso di fattispecie a dolo specifico, è necessario che almeno uno dei compartecipi abbia agito con quella particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice, mentre gli altri concorrenti devono quantomeno esserne consapevoli.
Nel caso di concorso tra cliente e professionista nell'ambito di uno dei reati tributari, il dolo specifico (che corrisponde al fine di evasione) è senz'altro facilmente individuabile nel caso del contribuente, il quale, attraverso la condotta criminosa tipica, cerca proprio di realizzare tale finalità.
Quanto alla posizione del professionista, in una recente sentenza (che ha avuto notevole risonanza sulla stampa di settore) la Suprema Corte ha ritenuto che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 2 del D. Lgs. n. 74/2000 è compatibile con il dolo c.d. "eventuale", che è "ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti possa comportare l'evasione delle imposte dirette o l'IVA" (Cass. Pen. Sez. III, 29 marzo 2019, n. 28158 ( depositata il 27 giugno 2019).
A parere di chi scrive, il commercialista che presenta la dichiarazione fiscale non ha alcun obbligo di accertarsi che i documenti presentati dal cliente siano veri, altrimenti egli rivestirebbe una inammissibile posizione di garanzia a tutela degli interessi erariali, senza avere il potere di controllo delle attività del proprio cliente.
Diverso è il caso in cui il professionista sia perfettamente consapevole della falsità dei documenti che porta in dichiarazione.
Nel caso di cui sopra - che ha dato tanto scalpore - la Cassazione ha ritenuto che il commercialista fosse consapevole dell'esistenza di operazioni illecite perpetrate dal cliente al fine di evasione, dato che sapeva dell'inesistenza di scritture di magazzino e della irregolare tenuta del registro degli inventari e, benché a seguito di ripetuti controlli della Guardia di Finanza fossero emerse "conclamate modalità truffaldine di gestione contabile della Società", aveva comunque presentato la dichiarazione dei redditi, utilizzando peraltro fatture che l'Amministrazione Finanziaria aveva ritenuto false.
Rimane qualche perplessità nella ricostruzione del caso concreto operata dalla Suprema Corte: si tratta di un caso limite, in cui le violazioni tributarie appaiono talmente numerose e palesi da ritenere certamente sussistente la consapevolezza dell'evasione, oppure si deve ritenere che la Suprema Corte abbia affermato un principio generale - potenzialmente pericoloso per il professionista - e, cioè, che l'esistenza di una contestazione sul piano tributario equivale automaticamente alla consapevolezza (almeno sotto il profilo del dolo eventuale) della frode perpetrata dal cliente, laddove tale contestazione potrebbe anche rivelarsi in seguito infondata?
Il punto nodale della questione è quello di stabilire fin dove debba spingersi il consulente per essere sicuro di non incorrere in una responsabilità penale a titolo di concorso.
A parere di chi scrive, le attività ordinarie del dottore commercialista - quali la semplice redazione delle dichiarazioni tributarie o la tenuta della contabilità - non costituiscono di per sè rafforzamento del proposito criminoso nè contributo causale significativo per l'eventuale evasione del proprio cliente, per mancanza di rimproverabilità, quantomeno sotto il profilo soggettivo.
E' tuttavia da rilevare che nel caso di violazioni tributarie palesi, pur non essendoci un obbligo giuridico a carico del consulente fiscale di impedire l'evento voluto dal cliente, sarebbe opportuno che costui si astenesse dal presentare la dichiarazione tributaria, nel momento in cui sussista un possibile rischio di evasione, onde evitare di incorrere in una responsabilità penale a titolo di concorso materiale con dolo eventuale.