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RISCHIO PENALE PIU’ELEVATO PER I SINDACI DI SOCIETA’ DEL MEDESIMO GRUPPO
S. Gennai - A. Traversi, in Riv. EUTEKNE
Eutekne, 2021, n. 03- 2021



RISCHIO PENALE PIU’ELEVATO PER I SINDACI DI SOCIETA’ DEL MEDESIMO GRUPPO - Studio Legale Traversi - studio legale auto riciclaggio Firenze
RISCHIO PENALE PIU’ ELEVATO PER I SINDACI DI SOCIETA’ DEL MEDESIMO GRUPPO

di Sara Gennai e Alessandro Traversi
Avvocati in Firenze

Abstract
Dopo una disamina della fattispecie oggetto della sentenza in commento, vengono analizzate, nello specifico, le principali tematiche giuridiche in ordine alla ritenuta responsabilità penale dei sindaci di una società di capitali per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Segnatamente, vengono approfonditi l’aspetto del concorso dei sindaci mediante condotte omissive, nonché quello dell’elemento soggettivo del dolo eventuale, con particolare riguardo agli indicatori per la sua individuazione. Infine, viene esaminata la delicata questione dell’errore scusabile, con riferimento all’errore su legge extrapenale.


LA SENTENZA IN BREVE

Il caso oggetto della sentenza in commento riguarda tre sindaci di una S.r.l., dichiarata fallita, dei quali è stata riconosciuta la penale responsabilità, a titolo di concorso omissivo, nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione in relazione a una serie di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo, nelle quali gli imputati rivestivano simultaneamente il ruolo di componenti del collegio sindacale. La vicenda trae origine dalla ingiustificata svalutazione del patrimonio immobiliare della società fallita, che era stato oggetto di conferimento a favore di un’altra società del gruppo, in cambio di una partecipazione in quest’ultima. Detta partecipazione era stata poi trasferita alla società capogruppo e compensata con crediti risultati poi inesistenti vantati nei confronti della società fallita. La sentenza di condanna di primo grado, confermata dalla Corte di Appello di Milano, si basava essenzialmente sul fatto che gli imputati, ricoprendo il ruolo di sindaci in plurime società del gruppo, ben sapessero della funzionalizzazione della duplice cessione alla operazione di compensazione e, nonostante ciò, nulla avevano eccepito alla integrale cessione del patrimonio immobiliare della società fallita, in assenza di un corrispettivo effettivo, sebbene fossero a conoscenza della situazione di collasso finanziario in cui versava la società cedente. Gli imputati avevano proposto ricorso per cassazione, contestando, in particolare, che essi avessero dolosamente omesso di assumere le iniziative di loro competenza per contrastare operazioni finalizzate alla spoliazione del patrimonio della società a vantaggio di altre società del gruppo e rilevando che, all’epoca dei fatti (2010), non era applicabile, con riferimento alle società a responsabilità limitata, la segnalazione al Tribunale prevista dall’art. 2409 cod. civ., ultimo comma. La Corte di Cassazione ha tuttavia rigettato i ricorsi, ribadendo che il ruolo dei sindaci era stato gravemente omissivo rispetto sia ai doveri di controllo che agli obblighi di intervento .

MASSIMA
E’ ravvisabile la responsabilità penale dei sindaci delle società di capitali, a titolo di concorso omissivo con gli amministratori, secondo il disposto di cui all’art. 40, comma 2, cod. pen., cioè sotto il profilo della violazione del dovere giuridico di controllo che inerisce alla loro funzione. Controllo che non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si deve estendere a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello dei creditori sociali. Il collegio sindacale è tenuto ad attivare i poteri di intervento previsti dalla legge, quali gli atti di ispezione e controllo e la richiesta di informazioni agli amministratori ex art. 2403 bis cod. civ. Conseguentemente, i sindaci possono essere chiamati a rispondere del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale laddove non abbiano in alcun modo reagito di fronte a operazioni infragruppo di dubbia legittimità e regolarità, che hanno comportato il depauperamento del patrimonio della società fallita, pur essendo a conoscenza della loro funzionalizzazione a vantaggio di altre società del gruppo, posto che rivestivano la medesima carica in plurime società del medesimo gruppo.

COMMENTO
La fattispecie presa in esame dalla Suprema Corte si inserisce nell’ambito della tematica della responsabilità penale dei sindaci per reati di bancarotta a titolo di concorso omissivo con gli amministratori, per non avere ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro funzione.
Nel caso specifico, a sostegno della ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della coscienza e volontà dei sindaci di consentire agli amministratori la commissione delle operazioni distrattive contestate, gioca un ruolo importante la pluralità di incarichi ricoperti da costoro nell’ambito di società del medesimo gruppo.
Non vi è dubbio, quindi, che il rivestire la carica di membro del collegio sindacale infragruppo, rende la posizione del sindaco più delicata e lo espone a un maggior rischio penale, a fronte del quale può essere opportuno adottare particolare attenzione e cautela.

IL CASO OGGETTO DELLA SENTENZA
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda i componenti del collegio sindacale di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita, ritenuti responsabili in concorso con gli amministratori del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, commesso attraverso operazioni infragruppo.
Nella sentenza, innanzitutto, si rileva che “i tre sindaci imputati erano da tempo (almeno un triennio) inseriti nella galassia delle società del gruppo” e che, in considerazione del plurimo ruolo ricoperto, ben sapessero che le correlate operazioni di cessione e successiva compensazione fossero finalizzate al vantaggio esclusivo di altre società del gruppo, a danno dei creditori della società depauperata.
Segnatamente, si assume che i sindaci della S.r.l. poi fallita “nulla avevano eccepito all’operazione di integrale cessione del patrimonio immobiliare della società stessa, peraltro ingiustificatamente svalutato all’atto del conferimento, in assenza di un corrispettivo effettivo di esso, sebbene non ignorassero la situazione di collasso finanziario in cui versava la società, dal momento che soltanto qualche giorno dopo avevano certificato una perdita di esercizio” e “nulla ancora avevano opposto alla previsione, leggibile nel verbale di assemblea, di cessione della partecipazione acquisita in corrispettivo del conferimento del patrimonio immobiliare”.
Inoltre, è stato ritenuto “inescusabile” il ritardo con il quale avevano rilevato il difetto di documentazione dell’effettivo pagamento della cessione della partecipazione in questione da parte della società cessionaria, assumendo “solo blande iniziative nei confronti degli amministratori”.
La Suprema Corte ha ritenuto che il suddetto comportamento costituisse violazione dei poteri-doveri sanciti a loro carico dall’art. 2403 cod. civ., rilevando che essi “non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale”.
Conseguentemente, è stata ritenuta correttamente ravvisata la responsabilità penale dei sindaci a titolo di concorso omissivo a norma dell’art. 40, comma 2, cod. pen., “sotto il profilo della violazione del dovere giuridico di controllo che inerisce alla loro funzione”, specificando che detto controllo, non si può intendere circoscritto all’operato degli amministratori, ma si deve “estendere a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali”, di talché non può non ricomprendere anche “l’obbligo di segnalare tempestivamente tutte le situazioni suscettibili di mettere a repentaglio la prosecuzione dell’attività e l’assicurazione della garanzia dei creditori”.
Infine, glissando sulla circostanza, invocata dai sindaci nel proprio ricorso, che all’epoca dei fatti (2010) l’istituto della “Denunzia al tribunale” di cui all’art. 2409 cod. civ., ultimo comma, non fosse, per concorde giurisprudenza costituzionale e di legittimità, applicabile alle S.r.l., si è affermato in sentenza che, in caso di fondato sospetto di gravi irregolarità gestorie compiute dagli amministratori suscettibili di arrecare danno alla società, il suddetto potere di denuncia non è il solo strumento utilizzabile da parte del collegio sindacale per adempiere ai propri compiti, ma anche, e prima ancora, che essi avrebbero potuto – e dovuto – attivare gli “altri poteri di intervento all’uopo previsti dalla legge”, segnatamente “il compimento di ‘atti di ispezione e controllo’” e “la richiesta di informazioni agli amministratori”, ai sensi dell’art. 2403 bis cod. civ. o anche richiedendo la convocazione dell’assemblea societaria ai sensi dell’art. 2406 cod. civ.

CONCORSO OMISSIVO DEI SINDACI NEL REATO DI BANCAROTTA FRAUDOLENTA
La sentenza in commento si inserisce nel consolidato orientamento giurisprudenziale che ravvisa la responsabilità penale dei sindaci per il reato di bancarotta fraudolenta commesso dagli amministratori a titolo di concorso omissivo.
Il fondamento giuridico della responsabilità omissiva si rinviene nell’art. 40, comma 2, cod. pen., il quale stabilisce che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Presupposto dell’operatività di tale disposizione è, quindi, la sussistenza di un obbligo giuridico di impedimento a carico dell’agente, che viene così a trovarsi in quella che viene definita una “posizione di garanzia” rispetto al non verificarsi dell’evento del reato .
Nel caso dei sindaci, il contenuto positivo della loro posizione di garanzia è costituito dai poteri-doveri di controllo che sono contemplati dalla disciplina civilistica e, in particolare, dagli artt. 2403, 2403 bis, 2407 e 2429 cod. civ.
Segnatamente, si è affermato che l’omissione penalmente rilevante da parte dei sindaci ai fini della configurabilità di responsabilità penale può esplicarsi quale “omesso controllo sull’operato dell’amministratore della società” ovvero quale “omessa attivazione dei poteri loro riconosciuti dalla legge” .
Quanto all’omesso controllo sull’operato degli amministratori, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha precisato, richiamando, in particolare, Cass. civ., Sez. I, 24 marzo 1999, n. 2772, che il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci ex art. 2403 cod. civ. “non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si estende a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente dei creditori sociali”.
Peraltro, anche nella giurisprudenza penale, è stato riconosciuto il suddetto principio in ordine all’ambito del controllo demandato al collegio sindacale, affermandosi che il dovere di controllo attribuito a tale organo dagli artt. 2403 cod. civ. e ss., “non si esaurisce in una mera verifica formale, quasi a ridursi ad un riscontro contabile nell’ambito della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione e si estende al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello concorrente dei creditori sociali” .
Quanto alla omessa attivazione dei poteri di intervento previsti dalla legge, essi vengono individuati, precipuamente, negli “atti di ispezione e di controllo” di cui all’art. 2403 bis cod. civ. I sindaci, dunque, possono richiedere agli amministratori notizie e/o chiarimenti sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari. Risulterebbe peraltro opportuno, ai fini di poter eventualmente dimostrare l’assolvimento ai propri obblighi giuridici di vigilanza e controllo, che gli accertamenti eseguiti venissero annotati nel libro delle adunanze di cui all’art. 2421, primo comma, n. 5, cod. civ.
Vi sono, inoltre, altri poteri di natura endosocietaria spettanti al collegio sindacale, quale, ad esempio, quello previsto dall’art. 2377, secondo comma, cod. civ., di impugnazione delle delibere assembleari “non prese in conformità della legge o dello statuto”. Analogo potere di impugnazione è attribuito al suddetto organo anche nei confronti delle delibere del consiglio di amministrazione, ai sensi dell’art. 2388, quarto comma, cod. civ.
Altra modalità di azione esperibile dai sindaci in presenza di atti o comportamenti scorretti o illeciti da parte degli amministratori è poi la convocazione dell’assemblea, qualora vengano ravvisati “fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere”, secondo il disposto dell’art. 2406, secondo comma, cod. civ.
Infine, il collegio sindacale può ricorrere alla “denunzia al tribunale” , ai sensi dell’art. 2409, ultimo comma, cod. civ., laddove emergano fondati sospetti di “gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate”.
La stessa Cassazione penale, riguardo ai poteri di intervento attribuiti ai sindaci, ha affermato, in maniera analitica, che “per l’adempimento dei compiti riservatigli dalla legge il collegio sindacale, ed ogni suo componente, è titolare di una serie di poteri che lo pongono senz’altro in condizione di assolvere compiutamente ed efficacemente l’incarico. Esso può, infatti, procedere, in ogni momento, ad ‘atti di ispezione e controllo’, nonché chiedere informazioni agli amministratori su ogni aspetto dell’attività sociale o su determinati affari (art. 2403 bis c.c.) e deve convocare l’assemblea societaria quando ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità (art. 2406 c.c.); inoltre, può, e all’occorrenza deve (…) denunziare al Tribunale le gravi irregolarità commesse dall’amministratore, per consentire all’Autorità giudiziaria di intraprendere le iniziative di sua competenza (art. 2409 c.c., u.c.)” .
Naturalmente, i poteri attivabili dal collegio sindacale non possono essere intesi come capaci, in assoluto, di evitare la commissione di reati da parte degli amministratori, bensì volti a stimolare comportamenti legali e virtuosi degli organi deputati alla gestione della società.
In termini sintetici, potremmo dire che ai sindaci è demandato non un obbligo di risultato, ma un obbligo di prestazione.
E’ quindi particolarmente importante che il collegio sindacale, laddove rilevi aspetti di gravi irregolarità o anomalie, suscettibili di effetti pregiudizievoli per la società, in operazioni societarie compiute dagli amministratori, provveda senz’altro ad attivare i poteri di cui dispone.
Ciò anche nell’ottica di evitare di dover rispondere penalmente, a titolo di concorso omissivo, per non aver posto in essere la condotta doverosa esigibile. Tanto più tenendo conto che, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione, “l’inerzia sinonimo di omissione e questa, così come può essere l’effetto di una negligenza, può anche essere animata dal dolo, in tutte le sue possibili graduazioni; ed essa, al pari dell’azione, entra a pieno titolo nelle possibili modalità esecutive del reato” .

ELEMENTI INDICATIVI DEL DOLO
Ai fini della configurabilità di penale responsabilità dei sindaci, a titolo di concorso con gli amministratori, per il reato di bancarotta fraudolenta, non è tuttavia sufficiente il solo elemento oggettivo della condotta omissiva, ma occorre, necessariamente, che sussista anche l’elemento soggettivo del dolo, vale a dire la coscienza e volontà di fornire un contributo giuridicamente rilevante alla verificazione dell’evento lesivo .
Ai fini dell’integrazione di detto elemento soggettivo, non occorre però che vi sia, necessariamente, il dolo diretto, ossia l’esistenza di un accordo criminoso con gli amministratori (caso, peraltro, in pratica piuttosto infrequente), bensì è sufficiente che sussista il c.d. “dolo eventuale”.
Si configura dolo eventuale allorquando il soggetto, pur non volendo direttamente realizzare l’evento lesivo, abbia agito con la previsione o, comunque, con l’accettazione del rischio del suo verificarsi.
Ed è proprio il dolo eventuale che, molto spesso, connota la responsabilità concorsuale dei sindaci, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale .
La questione più delicata e rilevante in ordine alla sussistenza del richiesto elemento doloso è quella della sua individuazione, posto che l’elemento psicologico del soggetto agente, appartenendo al suo foro interno, non può essere accertato direttamente. Occorre quindi procedere in maniera induttiva, facendo ricorso a massime di comune esperienza e ricercando, negli elementi probatori disponibili, i segni esteriori della volontà.
Al riguardo, proprio con riferimento ai sindaci di società, in relazione al concorso nel reato di bancarotta fraudolenta, si è affermato che “non basta provare comportamenti di negligenza e imperizia anche gravi, come può essere il disinteresse per le vicende societarie, ma occorre la prova – che può essere data, come di regola, anche in via indiziaria – del fatto che la loro condotta abbia determinato o favorito, consapevolmente, la commissione dei fatti di bancarotta”, posto che “la responsabilità a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale del presidente e dei componenti del collegio sindacale non può fondarsi sulla sola posizione di garanzia e discendere, tout court, dal mancato esercizio dei doveri di controllo, ma postula l’esistenza di puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, dimostrativi di un’omissione dei poteri di controllo e di vigilanza esorbitante dalla dimensione meramente colposa e espressiva, piuttosto, di una volontaria partecipazione alle condotte distrattive degli amministratori, pur nella forma del dolo eventuale” .
Gli elementi indicativi del dolo che più spesso ricorrono, nella casistica giurisprudenziale, per comprovare la sussistenza del dolo eventuale in capo ai sindaci, sono, ad esempio, l’ampiezza dell’arco temporale in cui è stata posta in essere la condotta, il numero e la reiterazione delle violazioni, la loro gravità, la manifesta illegalità della condotta degli amministratori.
Nel caso oggetto della sentenza in commento, un elemento che è stato ritenuto particolarmente rilevante ai fini della dimostrazione della consapevolezza dei sindaci della società fallita della funzionalizzazione delle operazioni infragruppo a vantaggio di altre società, in frode dei creditori della società depauperata, è stata proprio la circostanza che essi, da almeno un triennio, fossero inseriti nei collegi sindacali delle società del gruppo.

ERRORE SCUSABILE ED ERRORE SULLA LEGGE EXTRAPENALE
Da ultimo, in relazione all’errore scusabile invocato dai ricorrenti sulla interpretazione dell’art. 2409, ultimo comma, cod. civ., che essi, basandosi sull’orientamento giurisprudenziale, avevano ritenuto inapplicabile alle società a responsabilità limitata, la sentenza in questione ritiene tale doglianza infondata, affermando che “le disposizioni del codice civile che disciplinano la funzione dei sindaci di una società non hanno natura di norma extrapenale, poiché le stesse delineano il quadro di poteri e doveri che, a certe condizioni, concorrono a delinearne la responsabilità penale”.
Tale affermazione offre lo spunto per soffermarci sul dibattuto tema della valenza scusante dell’errore ai fini penali.
Premesso che, per errore si intende la falsa rappresentazione o l’ignoranza di un qualunque dato della realtà naturalistica o giuridica, norma di riferimento è l’art. 47 cod. pen. il quale stabilisce, nel primo comma, che “l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente” e, nel terzo comma, che “l’errore su una legge diversa da una legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Si può quindi distinguere l’errore sul fatto, che cade su uno degli elementi costitutivi del fatto tipico e l’errore di diritto, avente ad oggetto una norma extrapenale, contenuta in una legge civile o amministrativa, che deve però risolversi, comunque, in errore “sul fatto”.
Infatti, laddove l’errore cadesse sul precetto penale e, cioè, sul divieto imposto dalla norma incriminatrice, si ricadrebbe nella diversa disciplina dell’art. 5 cod. pen. (Ignoranza della legge penale), il quale dispone che “nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”.
La sentenza in commento si inserisce nell’orientamento, ormai pressoché consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale “l’errore su legge diversa da quella penale, idoneo ad escludere la punibilità, è solo quello che riguarda una norma destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamata né esplicitamente né implicitamente nella norma penale” di talché “non è scusabile l’errore che incide su precetti e termini di altre branche del diritto, introdotti ad integrazione della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del comando penale” .
Tale rigoristica impostazione della Suprema Corte è evidentemente ispirata a motivazioni di natura politico-criminale, tese a salvaguardare l’imperatività del precetto penale, piuttosto che a ragioni tecnico-interpretative, tanto che, come è stato rilevato dalla dottrina, si tratta di una interpretazione sostanzialmente abrogatrice dell’art. 47, terzo comma, cod. pen. .
In realtà, va osservato che, seppure si voglia intendere che l’erronea interpretazione di una norma extrapenale che sia incorporata in una norma penale debba essere considerata “errore sulla legge penale”, non può però affermarsi che, per ciò solo, sia automaticamente inescusabile.
Ciò in quanto, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 23 marzo 1988, n. 364, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 5 cod. pen., il testo dello stesso va inteso nel senso che “l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile”.
Tale importante pronuncia, muovendo dalla considerazione che non può sussistere responsabilità penale a fronte di un errore incolpevole da parte dell’agente, ha affermato che sul cittadino incombono specifici doveri di informazione e conoscenza e che soltanto “inadempiuti tali doveri, l’ignoranza della legge risulta inescusabile, evitabile” mentre, “adempiuti ai medesimi la stessa ignoranza, divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile, esclude la rimproverabilità e, pertanto, la responsabilità penale”. Quanto ai criteri per determinare l’inevitabilità dell’errore sul precetto penale, viene precisato che debba farsi riferimento a parametri oggettivi, quali ad esempio l’“assoluta oscurità del testo legislativo” oppure “un gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari”, precisando, però, che si debba fare riferimento alle “particolari conoscenze ed abilità possedute dal singolo agente” e che “il fondamento costituzionale della ‘scusa’ dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive di inferiorità e non può certo essere strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali” .
In considerazione di ciò, è quindi da tener presente che i sindaci di società, in relazione alle qualità professionali e agli specifici doveri loro incombenti, difficilmente potranno fruttuosamente invocare l’errore scusabile in materia extrapenale.
Ciò nondimeno, nel caso di specie, trattandosi di un errore sull’interpretazione di una norma del Codice civile determinata da un orientamento giurisprudenziale, sia di legittimità che della stessa Corte Costituzionale, l’errore avrebbe anche potuto ritenersi scusabile. Senonché, non era soltanto questa la contestazione a loro mossa, sussistendo altre e più rilevanti violazioni dei doveri loro incombenti. Questo, presumibilmente, spiega il mancato approfondimento della questione da parte della Suprema Corte, che si è limitata ad affermare che, trattandosi di un errore su legge extrapenale integratrice del precetto della norma incriminatrice, fosse di per sé inescusabile.







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