La responsabilità dell'amministratore di fatto per i delitti tributari
Commento a Cass. Pen., Sez. III, 26 febbraio 2021, n. 12956.
Di Martina Urban e Olivia de Paris
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità di un sequestro preventivo ai fini della confisca del profitto derivante da delitto tributario nei confronti dell'amministratore "di fatto", conferma l'orientamento maggioritario in tema di astratta imputabilità di quest'ultimo, quale soggetto attivo in ordine a taluno dei reati di cui al D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
In generale, l'amministratore fatto è colui che svolge una effettiva attività di gestione di una società, esercitando in concreto i poteri propri dell'amministratore, pur non avendone la qualifica formale.
Ciò può verificarsi in mancanza di una nomina formalmente valida (ad es., in caso di decadenza o cessazione), oppure nel caso in cui l'amministratore di diritto sia un mero "prestanome", privo - in realtà - dei poteri connessi alla sua funzione.
Non è di per sè illecito che taluni atti di gestione vengano posti in essere dall'amministratore "di fatto", tuttavia costui, in base alla disciplina dettata dall'art. 2639 cod. civ., è tenuto ad adempiere all'insieme dei doveri cui è soggetto l'amministratore "di diritto" e, pertanto, ove ne sussistano i presupposti, assumerà la responsabilità diretta per le condotte illecite poste in essere nell'ambito della gestione societaria.
Sul piano penale, qualora vengano posti in essere dei reati nell'esercizio dell'attività di gestione dell'impresa, l'amministratore di fatto potrà essere ritenuto responsabile per i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, una volta verificata la sussistenza degli elementi costitutivi del reato (cfr., sul punto, in tema di bancarotta, Cass. Pen. Sez. V, 11 gennaio 2008, n. 7203).
In tal senso, la dottrina e la giurisprudenza di legittimità hanno recepito il criterio "funzionalistico o della effettività" dell'imputazione penale, per cui prevale il dato fattuale rispetto alla mera apparenza formale.
Tale criterio appare del tutto ragionevole, dato che, se così non fosse, un soggetto potrebbe garantirsi l'impunità usufruendo di una nomina irregolare o celandosi dietro ad un altro soggetto, provvisto di nomina solo formale, che sarebbe però l'unico a rispondere.
In tal senso, la giurisprudenza ha da tempo affermato che "in sede penale, il dato formale ha scarsa rilevanza, essendo importante il rapporto naturalistico tra persona e cosa aziendale [...], tra persona e potere di gestione dell'azienda" (cfr. Cass. Pen. Sez. V, 17 gennaio 1996).
Di conseguenza, nel caso di una società concretamente gestita da un soggetto diverso dall'amministratore di diritto, che svolge la funzione di mero "prestanome", l'amministratore di fatto non risponde solo a titolo di concorso, ma riveste direttamente la qualifica di soggetto attivo del reato.
Occorre rilevare che il principio dell'equiparazione tra amministratori di fatto e di diritto è stato recepito dal Legislatore con il D.Lgs n. 6/2003 e, sebbene l'art. 2639 cod. civ. si riferisca espressamente ai reati societari, la dottrina prevalente ritiene che si tratti di un principio applicabile anche agli altri settori del diritto penale, come quello penale tributario.
In ordine ai delitti tributari, anche la giurisprudenza ha affermato che "in tema di reati fiscali, i destinatari delle norme di cui al D. Lgs n. 74 del 2000 vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali, ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta" (Cass. Pen., Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 41259).
In tale ambito, ci si pone innanzitutto il problema di valutare se l'amministratore di fatto possa rispondere penalmente in ordine ai reati "propri" previsti dal D. Lgs n. 74/2000, che possono essere commessi soltanto dal soggetto che riveste una determinata qualifica o posizione e, in particolare, delle fattispecie connesse alla presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, attività tipicamente connessa alla qualifica di rappresentante legale della società.
La risposta non può che essere affermativa, applicando i principi di cui sopra, tenuto conto anche del fatto che la normativa tributaria, dettata dall'art. 1, comma 4, D.P.R. n. 322/1998, prevede che "la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta, a pena di nullità, dal rappresentante legale, e in mancanza da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto [...]".
Orbene, il legale rappresentante deve ritenersi "mancante" non solo laddove non vi sia una nomina valida, ma anche nell'ipotesi in cui l'amministratore di diritto sia un mero prestanome, che di fatto non ha alcun potere di ingerirsi nella gestione aziendale e, quindi, non è in grado di presentare una dichiarazione tributaria.
In tal caso, l'amministratore di fatto è direttamente tenuto all'adempimento degli obblighi fiscali, prima di tutto quelli dichiarativi e - peraltro - risponde direttamente anche per le sanzioni tributarie, ai sensi dell'art. 11, del D. Lgs n. 472/1997.
Anche in relazione ai delitti che si perfezionano con una omissione, come nell'ipotesi di cui all'art. 5, del D. Lgs n. 74/2000 ("omessa dichiarazione"), la Suprema Corte ha affermato che "il vero soggetto qualificato non è il prestanome, ma colui il quale effettivamente gestisce la società, perché solo lui è in condizione di compiere l'azione dovuta, mentre l'estraneo è il prestanome. A quest'ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 c.c., in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi" (Css. Pen., Sez. III, 14 maggio 2015, n. 38780).
Il che significa che l'amministratore di diritto, per il solo fatto di aver accettato la carica, è tenuto ad uno specifico obbligo di vigilanza e, di conseguenza, risponde per non aver impedito l'evento delittuoso da parte del gestore di fatto (e, cioè, l'omessa presentazione della dichiarazione).
Peraltro, tale condotta è imputabile al rappresentante legale anche solo a titolo di dolo eventuale, consistente nell'accettazione del rischio che, in mancanza di idonea vigilanza, si possa verificare l'evento tipico del reato.
In definitiva, sulla base della costante giurisprudenza di legittimità, l'amministratore di diritto e quello di fatto sono del tutto equiparabili sotto il profilo della imputabilità per i delitti tributari.
Oltretutto, dato che nella casistica non è raro che il prestanome sia privo di un patrimonio "capiente", l'ampliamento del novero dei soggetti attivi consente altresì - almeno in astratto - una maggiore possibilità di rinvenire e sottoporre effettivamente a confisca il profitto derivante dal reato tributario.
Quanto all'individuazione della nozione di "amministratore di fatto", il punto nodale della questione è sicuramente quello di individuare quali siano le attività rilevanti in relazione alla quali possa attribuirsi tale qualifica.
A tal fine, la giurisprudenza ha affermato che non occorre che detto soggetto eserciti tutti i poteri tipici dell'organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta, cioè, in modo non episodico od occasionale (cfr. Cass. Pen., sez. III, 19.12.2014, n. 22108).
La sentenza in commento affronta nuovamente il tema e ribadisce la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto derivante dai delitti di "dichiarazione infedele", "omessa dichiarazione" e "indebita compensazione" (previsti, rispettivamente, dagli artt. 4, 5 e 10 quater) nei confronti di un soggetto definito quale "amministratore di fatto".
Nel caso di specie l'indagato aveva impugnato la decisione del Tribunale del Riesame territoriale in tema di sequestro preventivo a suo carico, sostenendo di non essersi occupato della gestione societaria nella sue interezza e contestando quindi la qualifica di amministratore di fatto.
La Corte, disattendendo tale tesi difensiva, ha individuato una serie di indici concreti, sulla base dei quali l'indagato avrebbe rivestito una "posizione di primo piano nell'assetto societario, in quanto punto di riferimento in molteplici settori dell'attività dell'ente" (Cass. Pen., Sez. III, 26 febbraio 2021, n. 12956).
Nel caso di specie, secondo quanto si legge nel testo della decisione, la nozione di amministratore di fatto è stata desunta dal fatto di aver gestito i conti correnti societari (e, in particolare dal fatto di aver autorizzato i pagamenti), dall'aver affidato gli incarichi ai professionisti, dall'aver provveduto alla predisposizione dei bilanci, nonchè per il fatto di essersi occupato delle problematiche relative ai dipendenti e, in generale, in quanto l'indagato era il "referente" per molteplici settori aziendali nel corso degli anni, nonostante l'avvicendamento di diversi amministratori di diritto.
A parere di chi scrive, la decisione appare rilevante per due ordini di ragioni: innanzitutto ribadisce che la responsabilità penale dell'amministratore di fatto sussiste in ordine ad una significativa e continua attività gestoria, ancorché non esclusiva e, in secondo luogo, perchè detta una serie di indici per individuarne la nozione in concreto.
In conclusione, alla luce dei riferimenti normativi e dell'evoluzione della giurisprudenza sul tema, appare pacifico che tra i soggetti attivi dei delitti tributari vada ricompresa anche la categoria dell'amministratore di fatto (che ne risponde da solo o unitamente al rappresentante legale), mentre resta aperta la questione circa l'esatta individuazione degli indici per ritenere che in concreto sussista o meno "una significativa e continua attività gestoria".