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PROCESSO PENALE PARALLELO A QUELLO TRIBUTARIO PER DICHIARAZIONE INFEDELE: NON C'È QUESTIONE DI "NE BIS IN IDEM", MA LA PENA VA RIDOTTA
M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.82 - 2022



Processo penale parallelo a quello tributario per dichiarazione infedele: non c'è questione di
Commento a Cass. Pen., Sez. III, 15.10.2021 (depositata il 20.1.2022)

Di Martina Urban

Recentemente la Suprema Corte ha affrontato nuovamente la problematica dei rapporti tra il procedimento penale e quello tributario e, in particolare, l’applicabilità del doppio regime sanzionatorio per le violazioni fiscali che configurano altresì fattispecie di reato.
Nel caso di specie, è stato contestato il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4 del D. Lgs n. 74/20001 nei confronti di un soggetto che, nella propria dichiarazione dei redditi, aveva indicato elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, omettendo di dichiarare redditi derivanti da attività illecita consistenti - nello specifico - nella distrazione di somme in danno di una Società di capitali, poi dichiarata fallita. Per la Corte nessun dubbio che tali flussi di ricchezza siano da considerarsi redditi da sottoporre a tassazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della L n. 537/1993, trattandosi di “proventi da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”, dal momento che il sequestro è stato eseguito in un periodo d'imposta successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 14.2.2020, n. 18575).
Trattandosi di proventi non dichiarati, l'Agenzia delle Entrate ha notificato all'imputato un avviso di accertamento, con applicazione delle sanzioni tributarie relative alla fattispecie di "dichiarazione infedele" e, a seguito di ciò, è stato instaurato il relativo contenzioso tributario, conclusosi con sentenza definitiva con cui il contribuente è stato condannato a versare le maggiori imposte e le correlative sanzioni amministrative tributarie.
Inoltre, per i medesimi fatti, a carico del predetto contribuente risulterebbe altresì configurabile il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4 del D.Lgs n. 74/2000, trattandosi di somme che determinano un’evasione di ammontare superiore alla duplice soglia di rilevanza penale stabilita dalla norma incriminatrice (da un lato l’imposta evasa è risultata superiore ad euro centomila e, dall’altro, gli elementi attivi sottratti all’imposizione sarebbero superiori al dieci per cento di quelli dichiarati). Pertanto, in parallelo al procedimento tributario, il medesimo soggetto è stato tratto a giudizio per il delitto di "dichiarazione infedele" ed è stato condannato dal Tribunale di Monza alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, oltre pene accessorie, con decisione poi confermata dalla Corte di Appello di Milano.
Avverso tale decisione, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, lamentando la violazione del divieto di "bis in idem" come interpretato dalla Corte EDU (in base all'art. 4, del Prot. n. 7 della Convenzione EDU).
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, nella lunga e articolata motivazione della sentenza in commento, in primo luogo ha valutato l'eventuale applicabilità al caso concreto del principio di specialità di cui all'art. 19 del D.Lgs n. 74/2000, analizzando gli elementi strutturali delle fattispecie. Dal punto di vista tributario, la presentazione di una dichiarazione annuale nella quale è indicata un'imposta inferiore a quella dovuta è sanzionata dagli artt. 1, comma 2 (per quanto riguarda le imposte sul reddito e sulla produzione), e 5, comma 4 (in materia di IVA) del D.Lgs n. 471/1997: tuttavia, per ritenere configurabile il predetto illecito amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione (che qualifica il delitto di "dichiarazione infedele" di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4) essendo sufficiente indicare un'imposta o una basa imponibile inferiore a quelli dovuti.
Diversamente, la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 4 del D.Lgs n. 74/2000 richiede, quali elementi specializzanti, oltre al dolo specifico di evasione, che il contribuente indichi "elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti" e che l'ammontare dell'imposta evasa superi le soglie di punibilità previste dalla norma.
Quanto al primo problema, dunque, la Corte, nella motivazione della sentenza in commento, innanzitutto afferma che "sul piano strutturale, dunque, non v'e' piena sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente, dunque, integra due diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati in sede penale e amministrativa"(cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 2245/20219).

Ciò nonostante, occorre valutare se il fatto contestato in entrambi i procedimenti sia il medesimo sul piano sostanziale e naturalistico, ai fini dell'eventuale applicabilità del divieto del "ne bis in idem" di cui all'art. 4, Prot. n. 7, CEDU, in base al quale è riconosciuto il diritto a non essere giudicato penalmente due volte per lo stesso fatto 2. In tal senso, vi è "identità del fatto" quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. A tale riguardo, occorre precisare che il procedimento - a prescindere dalla qualificazione data dall'ordinamento nazionale - può avere natura "penale" ai fini dell'applicabilità dei principi della Carta EDU qualora la condotta sia qualificata come "illecito" e che sia offensiva di interessi particolarmente meritevoli di tutela in base alla natura dell'offesa perpetrata e, infine, che tale atto sia punito con una sanzione di grado e severità particolarmente afflittive, come risulta dai criteri autonomamente elaborati dalla Corte EDU in sede di interpretazione della parola "reato" contenuta negli artt. 6 e 7 della Convenzione, in particolare ai cd. "Engel criteria" (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia). In materia tributaria, la Corte EDU ha affermato che le sanzioni amministrative previste per il mancato pagamento delle imposte possono aveva natura sostanzialmente penale e che di conseguenza hanno natura penale i procedimenti per la loro applicazione (cfr. sent. A e B contro Norvegia). Nel nostro ordinamento, come in altri sistemi europei, vige un "doppio binario" sanzionatorio per talune condotte ritenute maggiormente offensive degli interessi erariali, per cui in relazione a tali violazioni può venire contemporaneamente comminata una duplice risposta punitiva. Sul punto la Corte precisa che "la Convenzione EDU non proibisce che per un medesimo fatto, qualificabile come reato secondo i propri canoni, vengano instaurati processi diversi, contemporaneamente o successivamente definiti con sentenza; da questo punto di vista gli Stati possono legittimamente adottare risposte complementari per sanzionare il medesimo fatto (convenzionalmente definibile come reato) attraverso procedimenti che, formando un insieme coerente, diano una risposta a tutti gli aspetti del problema, purché ciò non si traduca in un onere eccessivo per l'individuo interessato. L'art. 4 del Protocollo n. 7 è impedire l'ingiustizia di perseguire o punire due volta una persona per la medesima condotta, ma ciò non rende illegali gli ordinamenti che adottano un approccio "integrato" al fatto-reato sociale che determini reazioni legali parallele da parte di autorità diverse e per scopi diversi".
Per quanto qui interessa, nel caso di specie, occorre rilevare che la presentazione di dichiarazione infedele costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate.
Infatti, nel caso della "dichiarazione infedele", oltre alle pene previste in relazione all'art. 4 del D.Lgs n. 74/2000, ai sensi degli artt.1, comma 2 e 5, comma 4 del D. Lgs n. 471/1997 è altresì prevista una sanzione amministrativa che va dal novanta al centottanta per cento della maggiore imposta dovuta, che ha certamente carattere dissuasivo e in concreto appare adeguatamente afflittiva.
La Corte difatti riconosce che la suddetta sanzione amministrativa "alla luce dei criteri indicati dalla Corte EDU, ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU" e pertanto occorre valutare se, una volta passata in giudicato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che ha irrogato la sanzione tributaria all'imputato, non sussista il divieto di applicare al medesimo soggetto e per lo stesso fatto una ulteriore punizione (sul piano penale). Tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto del bis in idem sancito dall'art. 4, Prot. n. 7, Convenzione EDU, presuppone l'esistenza di una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione e, poiché il testo della norma fa esplicito riferimento ad una sentenza definitiva, il divieto del bis in idem non si applica ai casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti penali per il medesimo fatto.
Occorre precisare che nel caso concreto all'esame della Corte i due procedimenti (tributario e penale), sono stati avviati pressoché contemporaneamente e hanno "viaggiato" in parallelo per più di quattro anni, nel corso dei quali le pronunce che hanno definito le singole fasi si sono accavallate tra di loro.
Sussiste, pertanto, la stretta connessione temporale dei procedimenti che rende inapplicabile la preclusione processuale del doppio giudizio e, quindi, ammette la contemporanea applicabilità di sanzioni penali e amministrative.
Occorre quindi analizzare l'ultimo profilo, che qui assume particolare interesse e, cioè che la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato per il medesimo fatto storico.
Nell'ipotesi sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione, l'imputato, quale contribuente persona fisica, a seguito della decisione della Commissione Tributaria Regionale divenuta definitiva, ha versato una sanzione tributaria per "dichiarazione infedele" di euro 654.126,00 e, per il medesimo fatto, il Giudice penale di cognizione lo ha condannato ad una pena di un anno e quattro mesi di reclusione (al netto della riduzione per il rito), pena che certamente è da ritenersi afflittiva, avuto riguardo ai limiti edittali applicabili 'ratione temporis'3 Il ricorrente, per sottolineare la sproporzione del trattamento sanzionatorio complessivamente inteso, ha proposto di valutare la sanzione tributaria alla luce dei criteri indicati dall'art. 135 cod. pen., in base al quale "quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250 o frazione di euro 250 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva".
Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (Euro 250 per un giorno di pena detentiva), la sanzione di Euro 654.126,00 corrisponde a oltre sette anni di reclusione (654.126/350= 2616,5), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso di specie e per il medesimo fatto, pari a più di otto anni di reclusione. Naturalmente, il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della applicazione della sanzione penale.
A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., che consentono di determinare la pena in misura inferiore al minimo edittale previsto per lo specifico reato e può tener conto anche delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (e non solo meramente punitivo). In conclusione, la Corte ammette che non sussiste il rapporto di specialità tra il reato di dichiarazione infedele di cui al all'art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, e gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 1 e 5 del D.Lgs. n. 471/1997, per cui ben possono coesistere due procedimenti (tributario e penale) che hanno ad oggetto la medesima condotta. Inoltre, non sussiste violazione del divieto di "bis in idem" di cui all'art. 4, p. 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l'applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale.
Tuttavia, la Corte afferma che, "in tali casi, deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata" e da ciò "consegue che, in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all'imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall'art. 135 c.p., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo" (cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 2245/20219).




NOTE
1 - In base all'attuale formulazione, l'art. 4 del D. Lgs n. 74/2000 dispone che: "Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente : a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro due milioni . 1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilita' di elementi passivi reali . 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilita' previste dal comma 1, lettere a) e b)".

2 - Articolo 4. Diritto a non essere giudicato o punito due volte 1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.[...]

3 - All'epoca dei fatti la pena era quella della reclusione da uno a tre anni, mentre in seguito i fatti commessi dopo il 24 dicembre 2019, a seguito delle modifiche introdotte dal'art. 36, comma 1, lett. d, del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157, sono puniti con la pena con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi.






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