Commento a Cass. Pen., Sez. III, 15.10.2021 (depositata il 20.1.2022)
Di Martina Urban
Recentemente la Suprema Corte ha affrontato nuovamente la problematica dei
rapporti tra il procedimento penale e quello tributario e, in particolare, l’applicabilità del
doppio regime sanzionatorio per le violazioni fiscali che configurano altresì fattispecie di
reato.
Nel caso di specie, è stato contestato il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art.
4 del D. Lgs n. 74/20001 nei confronti di un soggetto che, nella propria dichiarazione dei
redditi, aveva indicato elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo,
omettendo di dichiarare redditi derivanti da attività illecita consistenti - nello specifico -
nella distrazione di somme in danno di una Società di capitali, poi dichiarata fallita.
Per la Corte nessun dubbio che tali flussi di ricchezza siano da considerarsi redditi
da sottoporre a tassazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della L n. 537/1993, trattandosi
di “proventi da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo,
se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”, dal momento che il sequestro è stato
eseguito in un periodo d'imposta successivo a quello in cui si è verificato il presupposto
impositivo (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 14.2.2020, n. 18575).
Trattandosi di proventi non dichiarati, l'Agenzia delle Entrate ha notificato all'imputato
un avviso di accertamento, con applicazione delle sanzioni tributarie relative alla
fattispecie di "dichiarazione infedele" e, a seguito di ciò, è stato instaurato il relativo
contenzioso tributario, conclusosi con sentenza definitiva con cui il contribuente è stato condannato a versare le maggiori imposte e le correlative sanzioni amministrative
tributarie.
Inoltre, per i medesimi fatti, a carico del predetto contribuente risulterebbe altresì
configurabile il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4 del D.Lgs n. 74/2000,
trattandosi di somme che determinano un’evasione di ammontare superiore alla duplice
soglia di rilevanza penale stabilita dalla norma incriminatrice (da un lato l’imposta evasa è
risultata superiore ad euro centomila e, dall’altro, gli elementi attivi sottratti all’imposizione
sarebbero superiori al dieci per cento di quelli dichiarati).
Pertanto, in parallelo al procedimento tributario, il medesimo soggetto è stato tratto
a giudizio per il delitto di "dichiarazione infedele" ed è stato condannato dal Tribunale di
Monza alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, oltre pene accessorie, con decisione poi
confermata dalla Corte di Appello di Milano.
Avverso tale decisione, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione,
lamentando la violazione del divieto di "bis in idem" come interpretato dalla Corte EDU (in
base all'art. 4, del Prot. n. 7 della Convenzione EDU).
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, nella lunga e articolata
motivazione della sentenza in commento, in primo luogo ha valutato l'eventuale
applicabilità al caso concreto del principio di specialità di cui all'art. 19 del D.Lgs n.
74/2000, analizzando gli elementi strutturali delle fattispecie.
Dal punto di vista tributario, la presentazione di una dichiarazione annuale nella
quale è indicata un'imposta inferiore a quella dovuta è sanzionata dagli artt. 1, comma 2
(per quanto riguarda le imposte sul reddito e sulla produzione), e 5, comma 4 (in materia
di IVA) del D.Lgs n. 471/1997: tuttavia, per ritenere configurabile il predetto illecito
amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione (che qualifica il delitto di
"dichiarazione infedele" di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4) essendo sufficiente indicare
un'imposta o una basa imponibile inferiore a quelli dovuti.
Diversamente, la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 4 del D.Lgs n. 74/2000
richiede, quali elementi specializzanti, oltre al dolo specifico di evasione, che il
contribuente indichi "elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od
elementi passivi inesistenti" e che l'ammontare dell'imposta evasa superi le soglie di
punibilità previste dalla norma.
Quanto al primo problema, dunque, la Corte, nella motivazione della sentenza in
commento, innanzitutto afferma che "sul piano strutturale, dunque, non v'e' piena
sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente, dunque, integra due
diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati in sede penale e
amministrativa"(cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 2245/20219).
Ciò nonostante, occorre valutare se il fatto contestato in entrambi i procedimenti sia il
medesimo sul piano sostanziale e naturalistico, ai fini dell'eventuale applicabilità del
divieto del "ne bis in idem" di cui all'art. 4, Prot. n. 7, CEDU, in base al quale è riconosciuto
il diritto a non essere giudicato penalmente due volte per lo stesso fatto 2.
In tal senso, vi è "identità del fatto" quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica
nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta,
evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
A tale riguardo, occorre precisare che il procedimento - a prescindere dalla
qualificazione data dall'ordinamento nazionale - può avere natura "penale" ai fini
dell'applicabilità dei principi della Carta EDU qualora la condotta sia qualificata come
"illecito" e che sia offensiva di interessi particolarmente meritevoli di tutela in base alla
natura dell'offesa perpetrata e, infine, che tale atto sia punito con una sanzione di grado e
severità particolarmente afflittive, come risulta dai criteri autonomamente elaborati dalla
Corte EDU in sede di interpretazione della parola "reato" contenuta negli artt. 6 e 7 della
Convenzione, in particolare ai cd. "Engel criteria" (Corte EDU, Grande Camera,
15/11/2016, caso A e B contro Norvegia).
In materia tributaria, la Corte EDU ha affermato che le sanzioni amministrative
previste per il mancato pagamento delle imposte possono aveva natura sostanzialmente
penale e che di conseguenza hanno natura penale i procedimenti per la loro applicazione
(cfr. sent. A e B contro Norvegia).
Nel nostro ordinamento, come in altri sistemi europei, vige un "doppio binario"
sanzionatorio per talune condotte ritenute maggiormente offensive degli interessi erariali,
per cui in relazione a tali violazioni può venire contemporaneamente comminata una
duplice risposta punitiva.
Sul punto la Corte precisa che "la Convenzione EDU non proibisce che per un
medesimo fatto, qualificabile come reato secondo i propri canoni, vengano instaurati
processi diversi, contemporaneamente o successivamente definiti con sentenza; da
questo punto di vista gli Stati possono legittimamente adottare risposte complementari per
sanzionare il medesimo fatto (convenzionalmente definibile come reato) attraverso
procedimenti che, formando un insieme coerente, diano una risposta a tutti gli aspetti del
problema, purché ciò non si traduca in un onere eccessivo per l'individuo interessato. L'art. 4 del Protocollo n. 7 è impedire l'ingiustizia di perseguire o punire due volta una persona per la medesima condotta, ma ciò non rende illegali gli ordinamenti che adottano un
approccio "integrato" al fatto-reato sociale che determini reazioni legali parallele da parte
di autorità diverse e per scopi diversi".
Per quanto qui interessa, nel caso di specie, occorre rilevare che la presentazione di
dichiarazione infedele costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra
loro diversamente sanzionate.
Infatti, nel caso della "dichiarazione infedele", oltre alle pene previste in relazione
all'art. 4 del D.Lgs n. 74/2000, ai sensi degli artt.1, comma 2 e 5, comma 4 del D. Lgs n.
471/1997 è altresì prevista una sanzione amministrativa che va dal novanta al centottanta
per cento della maggiore imposta dovuta, che ha certamente carattere dissuasivo e in
concreto appare adeguatamente afflittiva.
La Corte difatti riconosce che la suddetta sanzione amministrativa "alla luce dei
criteri indicati dalla Corte EDU, ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7,
Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU" e pertanto occorre valutare
se, una volta passata in giudicato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che
ha irrogato la sanzione tributaria all'imputato, non sussista il divieto di applicare al
medesimo soggetto e per lo stesso fatto una ulteriore punizione (sul piano penale).
Tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto del bis in idem sancito
dall'art. 4, Prot. n. 7, Convenzione EDU, presuppone l'esistenza di una sentenza definitiva
di condanna o di assoluzione e, poiché il testo della norma fa esplicito riferimento ad una
sentenza definitiva, il divieto del bis in idem non si applica ai casi di litispendenza, quando
cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più
procedimenti penali per il medesimo fatto.
Occorre precisare che nel caso concreto all'esame della Corte i due procedimenti
(tributario e penale), sono stati avviati pressoché contemporaneamente e hanno
"viaggiato" in parallelo per più di quattro anni, nel corso dei quali le pronunce che hanno
definito le singole fasi si sono accavallate tra di loro.
Sussiste, pertanto, la stretta connessione temporale dei procedimenti che rende
inapplicabile la preclusione processuale del doppio giudizio e, quindi, ammette la
contemporanea applicabilità di sanzioni penali e amministrative.
Occorre quindi analizzare l'ultimo profilo, che qui assume particolare interesse e, cioè
che la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato per il medesimo
fatto storico.
Nell'ipotesi sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione, l'imputato, quale
contribuente persona fisica, a seguito della decisione della Commissione Tributaria
Regionale divenuta definitiva, ha versato una sanzione tributaria per "dichiarazione infedele" di euro 654.126,00 e, per il medesimo fatto, il Giudice penale di cognizione lo ha
condannato ad una pena di un anno e quattro mesi di reclusione (al netto della riduzione
per il rito), pena che certamente è da ritenersi afflittiva, avuto riguardo ai limiti edittali
applicabili 'ratione temporis'3
Il ricorrente, per sottolineare la sproporzione del trattamento sanzionatorio
complessivamente inteso, ha proposto di valutare la sanzione tributaria alla luce dei criteri
indicati dall'art. 135 cod. pen., in base al quale "quando, per qualsiasi effetto giuridico, si
deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo
calcolando euro 250 o frazione di euro 250 di pena pecuniaria per un giorno di pena
detentiva".
Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (Euro 250 per un
giorno di pena detentiva), la sanzione di Euro 654.126,00 corrisponde a oltre sette anni di
reclusione (654.126/350= 2616,5), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso
di specie e per il medesimo fatto, pari a più di otto anni di reclusione.
Naturalmente, il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa
irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della
applicazione della sanzione penale.
A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze
attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., che consentono di determinare la pena in
misura inferiore al minimo edittale previsto per lo specifico reato e può tener conto anche
delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo
complesso, dissuasivo-rieducativo (e non solo meramente punitivo).
In conclusione, la Corte ammette che non sussiste il rapporto di specialità tra il reato
di dichiarazione infedele di cui al all'art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, e gli illeciti amministrativi
di cui agli artt. 1 e 5 del D.Lgs. n. 471/1997, per cui ben possono coesistere due
procedimenti (tributario e penale) che hanno ad oggetto la medesima condotta.
Inoltre, non sussiste violazione del divieto di "bis in idem" di cui all'art. 4, p. 1,
Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nei casi di litispendenza, quando cioè una
medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti
per il medesimo fatto storico e per l'applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione
sostanziale e procedurale.
Tuttavia, la Corte afferma che, "in tali casi, deve essere garantito un meccanismo di
compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda
sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente
irrogata sia sproporzionata" e da ciò "consegue che, in caso di sanzione (formalmente
amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU,
irrevocabilmente applicata all'imputato successivamente condannato in sede penale per il
medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già
irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall'art. 135 c.p., applicando,
se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del
reo" (cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 2245/20219).
NOTE
1 - In base all'attuale formulazione, l'art. 4 del D. Lgs n. 74/2000 dispone che: "Fuori dei casi previsti dagli
articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le
imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte
elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando,
congiuntamente :
a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila;
b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di
elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi
indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro due milioni .
1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta
classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri
concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai
fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della
non deducibilita' di elementi passivi reali .
1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che
complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli
importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di
punibilita' previste dal comma 1, lettere a) e b)".
2 - Articolo 4. Diritto a non essere giudicato o punito due volte 1. Nessuno può essere perseguito o
condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato
assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura
penale di tale Stato.[...]
3 - All'epoca dei fatti la pena era quella della reclusione da uno a tre anni, mentre in seguito i fatti
commessi dopo il 24 dicembre 2019, a seguito delle modifiche introdotte dal'art. 36, comma 1, lett. d, del
D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157, sono puniti con
la pena con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi.