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IL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE SEMPRE CHIAMATO A RISPONDERE DEL REATO DI DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA?
P. Pasquinuzzi e M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.23 - 2016



Il legale rappresentante di una società può essere sempre chiamato
a rispondere del reato di dichiarazione fraudolenta? - Studio Legale Traversi - studio legale auto riciclaggio Firenze

IL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETA’ PUO’ ESSERE SEMPRE CHIAMATO A RISPONDERE DEL REATO DI DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA?

        di Paola Pasquinuzzi e Martina Urban

 

Con la sentenza n. 38717 del 21 settembre 2016, la Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione affronta la problematica afferente alla riferibilità della condotta criminosa all'amministratore di diritto, di un’azienda di grandi dimensioni.
Nel caso di specie, l'imputato  era stato condannato per il reato di "dichiarazione fraudolenta" di cui all'art. 2, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale, nell'attuale formulazione, prevede l'applicabilità della pena della reclusione da un minimo di un anno e sei mesi ad un massimo edittale di sei anni per colui che, al fine di evadere le imposte dirette o l'IVA, indichi in una delle dichiarazioni relative a detti tributi elementi passivi fittizi attraverso l'uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Inoltre, la norma in questione prevede altresì che gli elementi non veritieri riportati nei documenti di cui sopra siano registrati nelle scritture contabili obbligatorie o siano detenuti al fine di prova nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.
Tuttavia,  il delitto in esame si realizza unicamente qualora gli elementi fittizi siano confluiti in una delle dichiarazioni relative ad imposte dirette ed IVA, mentre la mera registrazione di fatture false e la loro tenuta in contabilità non costituiscono reato, neppure sotto il profilo del tentativo.
Da ciò consegue che la presentazione della dichiarazione è il presupposto fondamentale per la configurabilità della responsabilità penale e costituisce il momento consumativo del reato di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 (Cass. pen., Sez. III, 6 ottobre 2015, n. 49570).
Di conseguenza il responsabile del delitto è individuabile in colui che ha sottoscritto la suddetta dichiarazione e, nel caso di società commerciali, nella persona dell’amministratore o legale rappresentante.
Sotto il profilo soggettivo, per la configurabilità del delitto in questione, oltre alla volontà e consapevolezza di presentare una dichiarazione basata in parte su fatture false, la norma richiede anche il dolo specifico, consistente nell’aver agito al fine di evadere le imposte.
Di regola, il Giudice penale non compie un particolare accertamento in ordine all’elemento soggettivo, nel momento in cui colui che ha sottoscritto la dichiarazione è l’imprenditore o, comunque, il legale rappresentante della società che ha il controllo aziendale e, quindi, l’“interesse” all’evasione.
Pertanto, una volta accertata la falsità delle fatture e verificato che i costi fittizi esposti in tali documenti siano confluiti nella dichiarazione, è da ritenersi pressoché automatica la riferibilità del fatto nei confronti di chi ha sottoscritto la suddetta dichiarazione.
In taluni casi, la giurisprudenza ha addirittura ampliato il novero di soggetti attivi dei delitti tributari, ipotizzando una responsabilità penale a titolo di concorso nella frode fiscale in capo a colui che – pur non rivestendo cariche nella società – abbia partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito di procurare fatture passive fittizie (cfr. Cass. pen., Sez. III, 2 marzo 2013, n. 17418).
Tuttavia, in tali ipotesi, il coinvolgimento dell’amministratore di fatto non esclude comunque la responsabilità del sottoscrittore della dichiarazione.
Nel caso di specie, l’imputato, condannato per l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che le fatture in contestazione si riferivano a costi relativi alla sede operativa secondaria – diversa da quella in cui operava l’imputato medesimo – che veniva gestita da altri soggetti.
Di conseguenza, trattandosi di società di notevoli dimensioni, organizzata in una pluralità di sedi operative autonome, il legale rappresentante – una volta appurata la regolarità formale della contabilità – poteva anche non avere la consapevolezza della fittizietà delle operazioni a cui non aveva in alcun modo preso parte.
Per questa ragione, il ricorrente lamentava la violazione di legge da parte del Giudice di merito, il quale aveva ritenuto invece sussistente la penale responsabilità  solo sulla base del fatto che il legale rappresentante non poteva non sapere dell’esistenza del fatto illecito e, comunque, aveva interesse all’evasione.
La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, afferma che “non può in questo senso ritenersi sufficiente la circostanza della mera preposizione formale [dell’imputato] alla legale rappresentanza della società contribuente, poiché, considerandone le dimensioni non certamente minimali, è invece necessario l’accertamento in concreto della sua consapevolezza della fittizietà delle fatture utilizzate ai fini della presentazione di una dichiarazione fiscale fraudolentemente falsa”.
Pertanto, i Giudici di legittimità hanno accolto la tesi del contribuente-imputato, ritenendo censurabile la decisione della Corte di Appello di non assumere la testimonianza dei testi che avrebbero potuto dimostrare l’insussistenza di tale consapevolezza.
Di conseguenza, il principio di diritto sopra enunciato rende indispensabile l’accertamento mirato a verificare anche l’aspetto psicologico del delitto in questione, che non può essere ritenuto sussistente automaticamente sulla base di un generico “interesse ad evadere” o, perfino, in base all’affermazione apodittica per cui l’imputato “non poteva non sapere”.
Infatti, i soggetti diversi dal legale rappresentante avrebbero potuto inserire nella contabilità della sede operativa secondaria fatture false, non solo allo scopo di evadere le imposte, ma per una ragione estranea alla sfera fiscale, come, ad esempio, quella di far apparire efficiente la gestione della sede distaccata, o di favorire un fornitore (magari un parente o un amico) o, infine, per nascondere un’appropriazione indebita.
Se così non fosse, si verrebbe a costituire in capo al sottoscrittore una sorta di responsabilità oggettiva, derivante unicamente dall’esercizio della carica sociale, in assenza di una norma espressa che attribuisca una specifica “posizione di garanzia” nei confronti dell’imprenditore qualora la gestione di una sede operativa autonoma sia affidata totalmente ad altri.
Pertanto, a parere di chi scrive, la pronuncia della Suprema Corte sia del tutto conforme al dettato costituzionale di cui all’art. 27, comma 1, Cost., per cui la responsabilità penale è personale.







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