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IN EUROPA SIAMO UNITI NELLA DIVERSITÀ.
L’ULTERIORE CAPITOLO DELLA VICENDA TARICCO: NESSUNA RINUNCIA AI PRINCIPI
SUPREMI DELL’ORDINE COSTITUZIONALE.
P. Pasquinuzzi e M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.28
- 2017
IN EUROPA SIAMO UNITI NELLA DIVERSITÀ.
L’ULTERIORE CAPITOLO DELLA VICENDA TARICCO: NESSUNA RINUNCIA AI PRINCIPI SUPREMI DELL’ORDINE COSTITUZIONALE
di Paola Pasquinuzzi e Martina Urban
La Corte Costituzionale, con ordinanza del 26 gennaio 2017, n. 24 è intervenuta nella travagliata vicenda della c.d. “sentenza Taricco” in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di Appello di Milano, in ordine all’applicabilità nel nostro ordinamento dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la suddetta sentenza.
Con tale decisione, la Corte Europea si era pronunciata sulla questione pregiudiziale sollevata dal Giudice interno, affermando che la disciplina italiana della prescrizione dei reati comporti – di fatto – la rinuncia dello Stato alla repressione in materia di frodi ed evasione di IVA.
Ciò sul presupposto – opinabile, in quanto basato su dati non oggettivi - che una buona parte dei reati contestati nei procedimenti penali in questione si estingue per intervenuta prescrizione.
Tale sentenza ha assunto una notevole importanza, al di là del caso di specie, in quanto ha affermato un principio suscettibile di applicazione generalizzata nell’ordinamento interno in materia penale, andando ad incidere su un istituto di diritto sostanziale, quale quello della prescrizione.
Innanzitutto la CGCE si ritiene competente a decidere della questione dato che la riscossione dell’IVA assume rilevanza comunitaria, trattandosi di risorsa propria dell’Unione, almeno in parte e, per tale ragione, il Giudice europeo – richiamando l’art. 325 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – ha sancito l’inadempienza dello Stato italiano all’obbligo di provvedere al recupero dell’IVA nel modo più efficace possibile.
Pertanto, per rimuovere ogni ostacolo al corretto adempimento dell’obbligo di riscossione dell’IVA, la CGCE ha disposto che il Giudice interno debba disapplicare le disposizioni del codice penale che non consentono di rispettare il suddetto obbligo, ove ne derivi l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi.
In applicazione di tale principio, il Giudice nazionale dovrebbe disapplicare le norme in tema di prescrizione che, in presenza di un atto interruttivo da parte dell’Autorità Giudiziaria (ad. es.: richiesta di rinvio a giudizio), limitano il decorso del nuovo termine di prescrizione ad un quarto della sua durata iniziale.
Sulla base della sentenza “Taricco”, l’applicazione di questo sistema ai delitti in materia di grandi frodi IVA comporterebbe infatti un pregiudizio per gli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Di conseguenza, in assenza di un limite al decorso della prescrizione, la pretesa punitiva dello Stato sotto il profilo penale in ordine ai delitti di cui trattasi non verrebbe mai meno, a differenza di altre fattispecie criminose, anche più gravi sotto il profilo della pena.
Tuttavia, la migliore dottrina ha ritenuto che le statuizioni della sentenza Taricco contrastino con i principi del nostro ordinamento in materia penale.
Innanzitutto, la disapplicazione del regime della prescrizione, così come previsto nel nostro ordinamento, comporta un effetto sfavorevole per coloro che sono sottoposti a procedimento penale per i delitti in materia di IVA, ledendo il loro diritto di difesa.
Inoltre, l’applicabilità di un regime di prescrizione specifico per determinati delitti contrasta con il principio costituzionale di eguaglianza, per cui cittadini in condizioni simili devono ricevere un trattamento analogo.
Ciò invero senza tenere conto che il Legislatore, con il D.L. 13 agosto, n. 138, convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148, ha elevato di un terzo i termini di prescrizione previsti per i delitti tributari di dichiarazione infedele o fraudolenta e di emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Infine, la sentenza in questione non chiarisce cosa si debba intendere per “gravi frodi IVA”, dato che non fa riferimento ad un parametro quantitativo o a particolari modalità della condotta.
La giurisprudenza di merito e di legittimità non ha applicato in modo univoco i principi espressi nella “sentenza Taricco”, benché la prima reazione sia stata quella di seguire l’iter logico giuridico della Corte di Giustizia e, cioè, la disapplicazione delle disposizioni di cui all’art. 160, ult. parte e all’art. 161 cod. pen. (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 15 settembre 2015, n. 2210).
Al tempo stesso, parte della giurisprudenza ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della Legge 2.8.20118, n. 130 di esecuzione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nella parte in cui dispone di applicare l’art. 325 par. 1 e 2 del citato TFUE, nel senso di prevedere l’obbligo per il Giudice nazionale di disapplicare le norme di cui all’art. 160, ult. parte e all’art. 161 cod. pen. per contrasto con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2 della Costituzione ( cfr. Corte di Appello di Milano, ordinanza 18.9.2015).
Analoga questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione per violazione non solo dell’art. 25, comma 2 Cost., ma anche del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), di non colpevolezza (art. 27 Cost.), nonché del primato del diritto europeo e del limite della sovranità degli Stati (art. 11 Cost.), ritenendo che l’applicazione della sentenza Taricco avrebbe comportato nell’ordinamento interno una disparità di trattamento tra cittadini, un aggravamento della punibilità dei delitti, anche in senso irretroattivo – cosa espressamente vietata in materia penale (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 25.1.2016, n. 7914 e Cass. Pen. Sez. III, 30.3.2016, n. 28346).
La Corte Costituzionale ha preso in esame tali questioni, ma ha sospeso per il momento il giudizio, disponendo in via pregiudiziale il rinvio alla Corte di Giustizia per chiedere una interpretazione autentica dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, tenuto conto dei principi interni di rango costituzionale.
In particolare, il Giudice delle Leggi ha invitato la Corte di Giustizia a rivedere la decisione adottata con la sentenza Taricco, evidenziandone le criticità.
In primo luogo, la Corte di Giustizia è chiamata a dare una definizione di cosa si intenda per “gravi frodi”, nonché quale sia il modo per determinare quando sussista una lesione degli interessi finanziari dell’Unione, dato che nel nostro ordinamento non vi è alcuna norma di riferimento.
Infatti, mancherebbe un parametro normativo adeguatamente determinato che stabilisca quando le frodi debbano essere ritenute “gravi” e quando ricorre un numero considerevole di casi di impunità tali da ledere gli interessi finanziari dell’Unione.
Sotto un secondo profilo, il Giudice delle Leggi ha posto il problema della disapplicazione della normativa in tema di prescrizione nei procedimenti pendenti, dato che ciò comporterebbe di fatto un ampliamento della punibilità.
Infatti, la prescrizione nel nostro ordinamento non è istituto di natura processuale, ma appartiene al diritto penale sostanziale che è soggetto al principio di legalità.
Tale principio comporta che il fatto che costituisce reato deve essere espressamente previsto da una legge che lo qualifichi come tale, con la conseguenza che è quindi vietato punire con sanzione penale un cittadino per un una condotta che, al momento della sua commissione, non era prevista come reato.
Da ciò discende che la legge penale non può essere retroattiva, dato che ciò sarebbe gravemente lesivo della libertà individuale, in quanto un soggetto verrebbe punito per un fatto a cui non era collegata alcuna sanzione al momento della sua realizzazione.
Oltre a ciò, in base al principio di legalità, una norma di diritto penale sostanziale deve soddisfare il requisito di determinatezza, in funzione preventiva, per far comprendere chiaramente al cittadino le conseguenze delle proprie azioni e per evitare l’arbitrio del giudice.
In definitiva, il soggetto deve poter prevedere le conseguenze della sua azione o omissione, sia in termini di comprendere ciò che è vietato e ciò che non lo è, sia quanto alla pena applicabile e in che misura.
In assenza di tali requisiti, viene meno la certezza del diritto che è presidio fondamentale di libertà.
Peraltro, nel nostro ordinamento, il suddetto principio di legalità si applica non solo alla qualificazione di un fatto come reato ed alla pena ad esso applicabile, ma anche ad ogni profilo sostanziale concernente la punibilità.
Di conseguenza, la pura e semplice disapplicazione di una norma favorevole al cittadino comporterebbe senz’altro una lesione del suo diritto soggettivo, garantito a livello costituzionale.
Oltretutto, il Giudice interno, volendo seguire pedissequamente le statuizioni espresse nella “sentenza Taricco”, si troverebbe ad applicare un regime di prescrizione (e, quindi di punibilità) diverso per un identico fatto (frode IVA) a seconda che giudichi tale condotta “grave” o meno.
A tale riguardo, si sottolinea che, in tema di delitti tributari, il Legislatore italiano, quando ha voluto limitare l’applicabilità della sanzione penale a ipotesi di particolare gravità o disvalore sociale, ha espressamente previsto delle soglie di punibilità, individuate in modo preciso, con riferimenti quantitativi numerici.
Da ultimo, la Corte Costituzionale, nella citata ordinanza n. 24/2017, pur riconoscendo il primato del diritto europeo nel sistema delle fonti, chiede una lettura del Trattato che contemperi il bilanciamento tra l’obbligo dello Stato membro di riscuotere in modo efficiente l’IVA e quello di garantire ai propri cittadini il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla nostra Carta Costituzionale.
Il nostro Giudice delle Leggi, con una straordinaria e mirabile pagina di filosofia del diritto, afferma senza mezze misure che una norma del Trattato non può essere interpretata nel senso di imporre ad uno Stato membro la rinuncia ai principi supremi di ordinare costituzionale, altrimenti verrebbe meno lo scopo e la funzione dell’Unione stessa.
In un periodo storico in cui numerose forze politiche mettono in discussione il primato del diritto europeo e la stessa opportunità di eseguire i Trattati, nell’ordinanza in commento si afferma che esiste un nucleo fondamentale di principi a tutela dei diritti individuali che non possono essere derogati, neppure per garantire gli interessi dell’Unione.
In particolare, la Corte afferma che “i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale collaborazione, che implica il reciproco rispetto ed assistenza.
Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità.
Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato sui valori comuni, di cui parla il Preambolo della Carta di Nizza”.
Non rimane che attendere la risposta della Corte di Giustizia ai tre quesiti sollevati dalla Corte Costituzionale, la quale, in ogni caso, ha già posto un limite invalicabile, proclamando che “se l’applicazione dell’art. 325 del TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, come ipotizzano i rimettenti, questa Corte avrebbe il dovere di impedirlo”.